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di Emanuele Novazio

La Stampa, 8 luglio 2010

L’Italia è disponibile ad accogliere alcuni dei 245 eritrei rinchiusi dal 30 giugno nel carcere duro di Brak, nel Sud della Libia - dove erano stati trasferiti per essersi rifiutati di dichiarare le generalità nel timore dì rappresaglie sulle famiglie, e dove sarebbero stati sottoposti a maltrattamenti e torture - e liberati ieri grazie alla mediazione italiana in cambio dell’impegno a “lavori socialmente utili”. Secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, 140 hanno già riempito i documenti con i quali accettano la proposta del governo libico. L’annuncio dell’accordo, dato dal sottosegretario agli Esteri Stefania Craxi, chiude soltanto in apparenza una vicenda che ha alimentato tensioni fra governo italiano e Ue da una parte, e fra Consiglio d’Europa e Italia dall’altra. Uno dei punti che più hanno provocato contrasti - fra maggioranza e opposizione ma anche fra organismi internazionali, ong e Roma - è la presunta presenza, fra i 245 eritrei, di uomini e donne respinti dall’Italia nel 2009 mentre erano diretti a Lampedusa.
Il ministro dell’Interno Maroni, ieri, ha negato ogni responsabilità: “È assolutamente indimostrato” che queste persone facciano parte del gruppo di 850 clandestini non accolti in Italia, ha detto. E il ministro degli Esteri Frattini: “Bisognerebbe vedere se dicono la verità. È curioso che i rifugiati avessero telefoni satellitari con cui parlare a mezzo mondo”. Ma il presidente del Comitato italiano per i rifugiati, Savino Pezzotta, conferma: “Alcuni degli eritrei sono stati respinti dall’Italia nel 2009 e altri rimpatriati in Libia su richiesta italiana quest’anno”.
Anche il segretario generale del Consiglio europeo per i rifugiati e gli esuli, Bjarte Vandvik, sostiene che “i rifugiati hanno subito le conseguenze della violazione degli obblighi legislativi di Roma e del silenzio assenso degli Stati membri dell’Unione europea”. Nei giorni scorsi il commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, aveva chiesto a Maroni e a Frattini di “collaborare per chiarire con urgenza la situazione con il governo libico”.
Non tutti gli eritrei credono alla buona fede di Tripoli, che non riconosce lo status di rifugiato e potrebbe rimpatriarli in qualsiasi momento. Da più parti è stato sottolineato il rapporto particolare che unisce Roma e Tripoli dopo la firma del Trattato di amicizia italo-libico, e la conseguente responsabilità del nostro governo nella rapida soluzione della vicenda: tanto più che molte testimonianze, suffragate dai rapporti del Consiglio d’Europa, confermano i maltrattamenti. Frattini e Maroni assicurano che il governo italiano ha fatto la sua parte, avviando nei giorni scorsi “una delicata mediazione” con il governo libico, per evitare ai 245 cittadini eritrei un rimpatrio che ne avrebbe messo a rischio la vita. La soluzione annunciata ieri a Tripoli è anche il frutto di questo “lavoro fatto in silenzio”, commenta Frattini, certo che “la Libia rispetterà l’accordo”.
Ma dov’era l’Europa, si domanda polemicamente il capo della nostra diplomazia? “È incredibile che da Bruxelles non sia venuto neanche un comunicato stampa su questa vicenda”. Pochi giorni fa, il ministro degli Esteri e il collega Maroni erano stati perfino più duri con i partner: sottolineando in un documento congiunto come “in questa vicenda si misuri ancora una volta la fragilità europea e la prospettiva del Nord, preoccupante e sconsiderata, che continua a considerare il Mediterraneo come un mondo a parte”.

Detenuto eritreo: oltre 100 di noi respinti dall’Italia

“Non vogliamo restare a lavorare in Libia perché questo Paese non ci riconosce lo status di rifugiati politici e in qualsiasi momento potremmo essere deportati in Eritrea”. È il commento di uno dei rifugiati nel campo di detenzione di Al Braq, raggiunto telefonicamente da CNRmedia dopo l’annuncio della liberazione. “Oltre cento di noi volevano raggiungere l’Italia e sono stati respinti dalle autorità italiane”, ha raccontato, “questo è bene che gli italiani lo sappiano. Non è vero quello che dice il vostro ministro (Roberto Maroni)”.
“Noi chiediamo lo status di rifugiati politici. Siamo stati respinti dalla Guardia Costiera italiana senza che ci chiedessero i documenti”, ha proseguito il prigioniero, “più della metà di noi, durante lo scorso anno, ha cercato di venire in Italia ma è stata respinta dalla Guardia Costiera senza che neanche venissero chiesti i documenti”. “Poi abbiamo cominciato a girare di prigione in prigione e, alla fine, siamo arrivati ad Al Barq”, ha continuato. “Da quando siamo stati respinti dalle autorità italiane, abbiamo affrontato torture e percosse in ogni prigione dove siamo stati rinchiusi fino ad arrivare qui, nel deserto, in una condizione disumana. Fino ad ora le autorità carcerarie non ci hanno comunicato niente.
Nessuno è venuto qui. Vengono da noi solamente per picchiarci e torturarci, nessuno è interessato alla nostra sorte. La Libia non riconosce i diritti dell’uomo e le Organizzazioni Internazionali. Non riceviamo cure mediche, non abbiamo cibo e acqua a sufficienza per tutti e la temperatura qui supera i 40 gradi. Nella mia cella siamo 95 e nell’altra in 105. Si stanno diffondendo molte malattie perché usiamo la stessa stanza per dormire, mangiare e andare in bagno. Quasi tutti hanno la dissenteria. In questo Paese ci torturano e ci vogliono morti. A questo punto, sarebbe meglio tornare in Eritrea piuttosto che morire qui nel deserto”, ha concluso il prigionieri.