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di Enza Gagliardi

www.luceraweb.it, 25 giugno 2010

Si può alleviare la permanenza in carcere dei detenuti stranieri? Quali sono le loro difficoltà? Come favorire il loro reinserimento sociale e lavorativo? Da queste e altre domande partì nel 2009 in due carceri della Capitanata, quello di Foggia e quello di Lucera, un progetto unico nel suo genere dal titolo “Vale la pena”. Un’iniziativa sperimentale, promossa dalla Cooperativa sociale Arcobaleno di Foggia, e finanziata dal ministero dell’Interno e cofinanziata dall’Unione Europea nell’ambito del Fondo Europeo per l’integrazione di Cittadini di Paesi Terzi, con il coinvolgimento dell’Assessorato alle Politiche Sociali della Provincia di Foggia, dell’Assessorato all’Immigrazione del Comune di Foggia, dell’Associazione “Comunità sulla strada di Emmaus”, del Consorzio Aranea, della Cooperativa Emmaus, di Cgil Smile Puglia e dell’Uepe (Ufficio per l’Esecuzione Penale Esterna) di Foggia, con l’intervento di organismi facenti parte del Consiglio territoriale per l’Immigrazione della Prefettura di Foggia.
Al centro di tutto c’è stata la figura del mediatore culturale, che sebbene prevista dal regolamento carcerario, di fatto la sua presenza è pressoché carente nelle strutture detentive, ma che si è confermata nell’esperienza foggiana e lucerina la chiave per aprire quella porta simbolica che impedisce una permanenza in carcere almeno accettabile per i detenuti stranieri. La scarsa o nulla conoscenza dell’italiano e del reato per il quale si sta scontando la pena, quindi delle norme giuridiche italiane e di quelle carcerarie, unita alla lontananza dai familiari, poiché a volte si tratta di detenuti trasferiti da sovraffollati carceri del Nord Italia, sono alcuni dei problemi che il mediatore culturale affronta con il carcerato. Affronta, sì, perché nonostante il progetto abbia avuto breve durata con l’ascolto di circa 130 detenuti stranieri in 350 colloqui, i risultati positivi hanno convinto gli operatori a proseguire la loro attività in entrambi gli istituti di detenzione, continuando a coordinarsi con il personale in loco: amministrazione carceraria, polizia penitenziaria, assistenti sociali, educatori, ecc.
Ed è proprio la grande collaborazione tra i vari soggetti coinvolti un elemento fondamentale del successo dello sportello informativo e di mediazione, di cui si è tornato a parlare non solo perché tuttora in corso il lunedì nel Capoluogo e il mercoledì a Lucera, anche se sotto forma di volontariato, ma anche per la valutazione a cui viene sottoposto il progetto in questi giorni da parte della Fondazione Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità), che ha ritenuto interessante approfondire la conoscenza di una iniziativa tanto particolare quanto utile a risolvere concretamente una serie di problemi che per un carcerato straniero possono diventare insormontabili e di conseguenza rendere la vita in cella ancora più amara.
“Vale la pena” prevedeva, oltre all’apertura degli sportelli informativi per facilitare la comunicazione tra culture diverse, anche la realizzazione di percorsi di formazione on the job, coinvolgendo 22 detenuti stranieri (11 a Foggia, 9 a Lucera e altri due che beneficiavano di misure di pena alternativa), con laboratori di animazione interculturali e professionalizzanti. Frutto del progetto è anche il primo Vademecum in dieci lingue “Vivere in carcere. Guida per detenuti stranieri”.
Tutti i soggetti principali coinvolti nell’iniziativa hanno evidenziato la rispondenza perfetta del nome dell’iniziativa con gli importanti risultati ottenuti, ciascuno per il proprio settore di intervento e poi in generale, a cominciare dal direttore del carcere di Lucera, Davide Di Florio, che ha sottolineato l’apertura verso l’esterno della struttura da lui diretta.
“Grazie anche alle borse lavoro, abbiamo dimostrato agli stessi detenuti - ha detto Di Florio - che, nonostante i problemi che ci sono nel nostro Paese, anche in Italia per loro c’è una speranza di futuro, e per questo, se loro ce la mettono tutta, alla fine ne vale davvero la pena”.
Il progetto, dunque, è stato anzitutto un’esperienza che ha cambiato in qualche modo l’orizzonte di diversi detenuti stranieri, tra cui molti i nordafricani e quelli provenienti dall’Europa dell’Est, ma che ha toccato anche gli stessi operatori, e coloro che con i carcerati convivono ogni giorno: gli agenti di polizia penitenziaria. Riuscire a superare l’ostacolo della lingua è stato per loro un estremo vantaggio per interagire coi i detenuti stranieri. “Per noi sono tutti uguali - ha sottolineato Giuseppe Di Terlizzi, comandante della polizia penitenziaria di Lucera - infatti quando arrivano non facciamo distinzioni nemmeno nell’assegnazione della cella”.
“Questo modo di operare, ovviamente con le dovute attenzioni - ha aggiunto Di Florio - fa sì che il primo livello di integrazione avvenga proprio in cella”. Tuttavia, non è sufficiente. “Uno strumento come lo sportello di mediazione - ha spiegato il direttore - ha fatto da vero ponte linguistico e culturale tra noi e i detenuti e quindi tra essi stessi”.
Altrettanto convinti della bontà del progetto sono gli altri soggetti coinvolti, tra cui gli operatori di Smile (Sistemi e Metodologie Innovativi per il Lavoro e l’Educazione) Puglia, che hanno tenuto a rimarcare il coinvolgimento umano durante la fase di formazione dei detenuti.
“Nel nostro lavoro operiamo con le realtà più diverse - ha raccontato Antonio De Maso, direttore della sede foggiana dell’associazione - ma questa volta l’esperienza ci ha colpiti in modo particolare, proprio perché di fronte a soggetti la cui vita è cambiata in modo così radicale. Siamo riusciti a instaurare con i carcerati un rapporto umano e loro ci hanno ricompensati con l’acquisita consapevolezza di aver usufruito di un servizio diverso e utile”.
Sì, perché l’esperienza lavorativa non soltanto ha comportato per i detenuti il conseguimento di una seppur limitata ma importante retribuzione, fondamentale per supportare le famiglie lontane, ma li ha calati in un contesto di “regolarità” che spesso era loro sconosciuto.
“Anche l’arrivo dell’assegno mensile - ha ricordato Di Florio - era vissuto in carcere quasi come un evento. E quando una volta uno si smarrì e non giunse in carcere, tutti ci mobilitammo per rintracciarlo”.
Ma ciò che si è toccato con mano è il clima più disteso che ha pervaso l’ambiente. A dirlo è sia il personale che Domenico Mascolo, il giudice di sorveglianza. “Il superamento dei tanti ostacoli comunicativi, i momenti formativi e lavorativi, l’ampliamento delle prospettive per un futuro all’esterno hanno permesso ai detenuti stranieri di acquisire maggiore serenità”.
Con effetti positivi su tutti. Il dato statistico parla di un netto abbassamento del numero degli atteggiamenti autolesionistici, che comunque si registrano in moltissime carceri italiane e che a volte sfociano in scioccanti suicidi, fattore che ha inciso positivamente sull’operato di tutti.
“Quelli che sono stati creati grazie a questo progetto - ha aggiunto il magistrato - sono i presupposti per un reinserimento sociale, ma proprio qui vanno evidenziate le criticità, perché il territorio foggiano non è aperto all’accoglienza di queste persone e, soprattutto, manca il supporto delle istituzioni esterne alla struttura carceraria”. È lo stesso giudice a spiegare che mentre nel Nord Italia sia le istituzioni che il contesto socio-lavorativo sono più disponibili alla collaborazione e all’accoglienza, qui “ci si scontra con l’aridità quasi totale del territorio”.
“L’esterno - ha spiegato Maria Arnau, assistente sociale responsabile del progetto per l’Uepe - non ha molto interesse a creare rapporti con l’ambiente carcerario. Spesso - ha rivelato - le aziende, pur potendo contare su fondi messi a disposizione, non sono disponibili ad assumere detenuti che godono di misure di pena alternativa o che aderiscono a progetti di questo tipo. Il rischio reale è che questi detenuti stranieri, una volta scontata la pena, non avendo la possibilità di crearsi qui una residenza, ed essendo in maggior parte destinatari di provvedimenti di espulsione, poi tornino a delinquere, non trovando altra via di sopravvivenza nella clandestinità”. La verità è anche che le aziende sarebbero costrette a mettere in regola la situazione lavorativa del nuovo assunto, altro ostacolo in una zona a forte incidenza di lavoro nero, specie per i lavoratori stranieri.
Insomma, nonostante gli sforzi e gli ottimi risultati dei progetti, il vero punto critico è il “dopo carcere”. Un problema che riguarda anche i detenuti di nazionalità italiana.
“Quello che manca è un servizio di accompagnamento per il dopo - ha sottolineato Di Florio - il che ci rammarica profondamente”. Fatto sta che quello intrapreso nelle due case circondariali è stato un percorso virtuoso di ascolto, di incontro, di integrazione socio-lavorativa che ha lasciato il segno. “C’è poca sensibilità verso la mediazione culturale - ha concluso Domenico La Marca, presidente della cooperativa Arcobaleno e coordinatore del progetto - e per questo ce la possiamo permettere soltanto nei progetti ed è un’esperienza che non può essere lasciata alla volontarietà. Le relazioni umane che si creano non possono finire con la scadenza di una iniziativa, tuttavia i nostri operatori non possono sopperire da soli a una mancanza del sistema”.