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di Maurizio Cirillo e Paola Calvano


Il Centro, 10 febbraio 2022

 

Chiusa l'inchiesta sulla morte del dirigente del Dipartimento salute mentale della Asl di Pescara. Per il pm, la tragedia poteva essere evitata se lo psichiatra arrestato fosse stato sorvegliato a vista. Il suicidio in carcere, a Vasto, di Sabatino Trotta, lo psichiatra e dirigente della Asl di Pescara arrestato il 7 aprile dello scorso anno nell'ambito di una inchiesta della procura pescarese, poteva essere evitato.

A questa conclusione è giunto il sostituto procuratore di Vasto, Michele Pecoraro che, prima di lasciare il suo incarico, ha firmato l'avviso di conclusione delle indagini con il quale, per quella morte, punta il dito sulla direttrice del carcere di Torre Sinello, Giuseppina Ruggero, e su un suo agente addetto alla sorveglianza dei detenuti, Antonio Caiazza, accusati di concorso in omicidio colposo, per una serie di omissioni, anche clamorose, che avrebbero permesso al detenuto eccellente di superare il rigido protocollo che si applica ai detenuti al loro ingresso in carcere.

La Ruggero, in particolare, "dopo la prima visita di medicina generale, richiedeva un colloquio immediato del detenuto presso di sé, inducendo in tal modo il Trotta a chiedere il differimento del colloquio psicologico" e tutti gli altri passaggi obbligati. E il clamore della vicenda emerge soprattutto dal fatto che nessuno sottopose Trotta a una accurata perquisizione, tanto che gli venne lasciato il laccio del pantalone della propria tuta con il quale lo psichiatra si impiccò: morte che, secondo l'autopsia, avvenne per "asfissia meccanica violenta da impiccamento".

E non meno grave è il fatto che il detenuto aveva con sé della sostanza stupefacente. Nell'imputazione, infatti, si contestano alla direttrice una serie di omissioni legate al fatto che, dopo la visita medica, la Ruggero fece saltare a Trotta tutto l'iter procedurale che lo avrebbe dovuto portare alla visita dello psicologo, e a quella dello psichiatra che avrebbe individuato i fattori di rischio: addirittura al detenuto sarebbe stato concesso di tenere in cella un televisore funzionante che trasmetteva tutte le notizie sul suo arresto, con tutti i particolari.

"Omettendo", si legge nel capo di imputazione, "di accertarsi che il detenuto nuovo giunto avesse completato il previsto percorso di accoglienza e sostegno, interrompendo in tal modo l'espletamento del preliminare colloquio di Trotta con lo psicologo presente in quel momento in istituto, che si sarebbe dovuto svolgere nel più breve tempo possibile, impedendo pertanto il ritiro di oggetti pericolosi nella disponibilità del Trotta, tra cui il laccio dei pantaloni della tuta, utilizzato dal predetto per compiere il gesto suicidario, nonché impedendo la perquisizione accurata del Trotta e la sua sottoposizione al regime di "grande sorveglianza" o di "sorveglianza a vista", tenuto anche conto del fatto che il Trotta assumeva cocaina all'interno della propria cella poco prima di togliersi la vita". E questa ultima circostanza venne fuori dall'esame tossicologico, che è stato coperto sempre da massimo riserbo, fatto in sede di autopsia. Ma nonostante tutto, il suicidio poteva ancora essere evitato, soltanto se ci fosse stata quella sorveglianza a vista prevista in casi del genere.

Mentre invece l'inchiesta avrebbe accertato che l'agente addetto alla sorveglianza "dalle ore 20,43 alle ore 23,34 ometteva di fare ingresso nella predetta sezione a lui assegnata dove era ubicata anche la cella n. 8 del Trotta, e ometteva pertanto di provvedere attentamente alla sorveglianza del detenuto, attività facilmente esperibile, anche mediante l'apposito spioncino insistente sulla parete della cella del Trotta, che avrebbe potuto prevenire il suicidio, atteso che Trotta aveva avuto il tempo di porre lo sgabello sotto la finestra, di legare il laccio del proprio pantalone al gancio della finestra, nonché di assumere cocaina poco prima di compiere il gesto suicidario". Violando così ogni regola del "piano locale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti".

L'avvocatessa Marisa Berarducci di Vasto, che assiste con il collega Cristiano Bertoncini gli indagati, contesta l'accusa. La difesa parla di condotta rispettosa del detenuto e condizionata dalle norme anti-Covid. Adesso i legali avranno 20 giorni di tempo per presentare memorie o chiedere l'interrogatorio.