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corrieresalentino.it, 10 febbraio 2022

 

Si tolse la vita impiccandosi all'interno del carcere di Teramo dove Cosimo Intrepido, un 31enne di Trepuzzi, si trovava detenuto. Quella morte, però, non è andata ad infoltire la fredda e cruda casistica dei suicidi avvenuti nei penitenziari italiani.

La Corte d'Appello del Tribunale di L'Aquila ha infatti condannato il Ministero di Grazia e Giustizia e quindi il carcere al risarcimento del danno in favore del giovane per omessa vigilanza. Per ricostruire l'intera vicenda bisogna fare un passo indietro negli anni. Al 2009, per l'esattezza quando il salentino si trovava in carcere per una rapina, (compiuta con un'arma giocattolo), ai danni di una donna in via Dalmazia Birago, a Lecce. Condannato in primo grado ad otto anni e mezzo di carcere, il giovane, in Appello, il 9 luglio del 2010, ottenne uno sconto di pena "alleggerita" a 4 anni.

La tragedia si verificò nel carcere di "Castrogno" il 29 giugno del 2011 quando Intrepido si impiccò all'interno della propria cella. Sin da subito le circostanze di quel suicidio apparvero poco chiare. Affetto da una "psicosi maniacale" e da un disturbo bipolare della personalità così come evidenziato in un verbale dell'Asl del 7 dicembre 2010, Intrepido aveva già tentato il suicidio un anno prima tentando di tagliarsi le vene. Secondo i suoi familiari assistiti dagli avvocati Giuseppe Rampino e Antonio Savoia, proprio in virtù di questo primo campanello d'allarme, non sarebbe stata predisposta un'adeguata vigilanza o un trasferimento in una comunità terapeutica del loro consanguineo.

Avvisaglie di una tragedia annunciata, verrebbe da dire, e l'impiccagione del detenuto, seguendo tale ragionamento, sarebbe stata figlia di una combinazione di fattori: successiva mancanza di una idonea sorveglianza e totale inadeguatezza nelle cure prestate al 31enne. Lo stato di insofferenza di Intrepido al regime carcerario sarebbe stato poi confermato da una lettera con cui lo stesso giovane chiedeva di essere trasferito presso il Cim di Squinzano per poter curare la patologia e avvicinarsi così ai suoi figlioletti. Ci sarebbe anche una seconda missiva scritta di proprio pugno da Intrepido per descrivere la sua insofferenza in cui sottolineava che "non fa niente che sono lontano dalla mia regione ma vi prego di farmi partire da questo carcere".

E per i giudici della Corte d'Appello sarebbe venuto meno il rispetto della frequenza temporale minima dei controlli cui sottoporre il detenuto anche al fine "di prevenire atti di autolesionismo e gesti autosoppressivi in considerazione del suo stato psicologico. Il rispetto delle prescrizioni - si legge sempre nelle motivazioni - avrebbe invece più probabilmente che non, se non reso impossibile l'attuazione della condotta autosoppressiva evitato che essa sfociasse nell'esito letale purtroppo verificatosi".