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di Gloria Riva


L'Espresso, 30 gennaio 2022

 

Il sottofinanziamento dei nostri istituti è un problema ignorato da decenni. E mentre le competenze degli studenti peggiorano, aumenta la dispersione. Il covid ha fatto il resto: più le aule restano chiuse, più gli alunni abbandonano gli studi.

C'è chi a scuola ha deciso di non andarci più. Ed è il 13 per cento dei ragazzi. E c'è chi a scuola ci va, ma senza imparare granché. Ed è il dieci per cento dei giovani. Così, nel 2021, un quarto di chi ha meno di 24 anni è entrato nel mondo degli adulti e del lavoro senza avere adeguati strumenti per affrontarlo, senza saper far di conto e comprendere un testo scritto. Il fenomeno si chiama dispersione scolastica, esplicita quando si verifica un vero e proprio abbandono degli studi, implicita quando si resta al banco ma senza trarne alcun insegnamento.

Stando agli ultimi dati Invalsi, prove che testano le competenze dei ragazzi di terza media e quinta superiore in matematica e italiano, questa seconda forma di diaspora sta aumentando fortemente: il 39 per cento degli studenti di terza media non ha raggiunto i livelli minimi di comprensione dell'italiano, in peggioramento di cinque punti rispetto all'anno prima; ancor più sconfortanti gli esiti in matematica con il 45 per cento di insufficienze. Alle superiori il 44 per cento degli studenti ha gravi carenze in italiano, oltre la metà in matematica. Se al Nord il problema è contenuto - in Friuli Venezia Giulia la dispersione scolastica è sotto al dieci per cento, in Lombardia e Veneto al 13 -, in Campania e Calabria sfiorano il 40 per cento.

Ecco perché un'altra dad, la didattica a distanza, non possiamo proprio permettercela: "L'interruzione delle lezioni in presenza ha inferto un duro colpo alla formazione dei ragazzi", spiega Roberto Ricci, presidente di Invalsi, che continua: "È aumentata le quota di allievi in situazione di forte fragilità. I più colpiti sono i ragazzi che provengono da contesti difficili e in condizioni socioeconomiche complicate. Così, se il Veneto ha perso i suoi risultati eccellenti pur restando oltre la media, in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, dove le prestazioni erano scarse già prima, la situazione è precipitata". Più le scuole restano chiuse, più gli alunni sono costretti a studiare da remoto, più la dispersione scolastica esploderà nei prossimi anni, lasciando sul campo giovani adulti privi della capacità di superare un colloquio di lavoro, di partecipare a un bando pubblico, di frequentare un corso di formazione o di avviare una propria attività imprenditoriale.

La scuola sembra aver perso la capacità di rompere quella sorta di profezia che si autoavvera e porta molti giovani a non immaginarsi in un ruolo diverso da quello al quale il proprio destino sociale sembra inchiodarli. Un destino fatto di matrimoni precoci, lavori precari e senza sbocco, di rinuncia a intraprendere percorsi formativi e di ricerca del lavoro, di impossibilità di emergere dallo zoccolo duro di miseria.

All'origine del declino della scuola c'è il suo tradizionale sotto finanziamento, che posiziona l'Italia in fondo alle classifiche europee e Ocse per risorse destinate all'istruzione. Va così dalla metà degli anni Novanta, con un ulteriore aggravamento dalla crisi economica del 2009, quando i finanziamenti all'istruzione sono scesi al di sotto del quattro per cento del prodotto interno lordo, il Pil, mentre, ad esempio, la Francia è sempre stata abbondantemente sopra il cinque per cento. "C'è stato un lieve aumento della spesa a partire dal 2015, con il progetto Buona Scuola del governo Renzi, ma non ci siamo mai schiodati da quel quattro per cento del Pil speso per la scuola, che continua a essere un valore inferiore alla media europea", spiega Giorgia Casalone, docente di Scienza delle Finanze all'Università del Piemonte Orientale, che continua raccontando come il 99 per cento di quel denaro serva a pagare le spese ordinarie, cioè gli stipendi di professori e personale scolastico, mentre solo in minima parte è utilizzato per rendere le scuole luoghi più vivibili.

Ma non è solo un problema economico: "Il nostro sistema di istruzione, essendo fortemente centralizzato, destina uguali risorse per gli studenti del nord, del centro e del sud. Ma essendo i risultati molto diversi da un'area all'altra, questo ci porta a dire che la crisi della scuola non dipende solo dalle risorse stanziate, ma in gran parte dal contesto familiare, dal livello di istruzione dei genitori, dall'ambiente socioculturale. Vuol dire che esistono delle carenze educative che la scuola, da sola, non riesce a colmare", conclude Casalone.

Anzi, in alcuni casi il valore aggiunto offerto dalla scuola è negativo. Ludovico Albert, presidente della Fondazione Compagnia di San Paolo, per molti anni ha insegnato in contesti difficili e racconta che l'assenza di incentivi a insegnare in scuole complicate spinge i docenti a cercare di spostarsi in scuole meno problematiche: "Dirigenti, insegnanti e personale amministrativo appena possono se ne vanno, rendendo tutto più difficile".

La scialuppa di salvataggio che il ministero dell'Istruzione offre alle scuole per salvarsi dalla povertà educativa è il Pon, programma operativo nazionale, periodici bandi su cui il ministero punta svariati milioni di euro per sostenere progetti extra curriculari, utili a stimolare la curiosità dei ragazzi e riavvicinarli al mondo della scuola, ad esempio realizzando orti didattici e acquistando device tecnologici: "Ma i presidi di scuole ai margini, che hanno difficoltà a trovare i docenti per l'attività ordinaria, non hanno il tempo per partecipare ai bandi, che richiedono una certa dose di burocrazia da assolvere. Così i finanziamenti dei Pon finiscono agli istituti meglio attrezzati, aumentando il divario e la disuguaglianza fra scuole". Favorendo anche la ghettizzazione dei ragazzi.

A Milano, ad esempio, oltre il 60 per cento dei bambini non frequenta la scuola elementare del proprio quartiere, ma istituti più centrali o meglio referenziati. Albert spiega che "il fenomeno della segregazione scolastica è molto forte e ci si trova con scuole di alto profilo, dove studiano i bambini bianchi provenienti da contesti socioculturali elevati, e istituti di periferia, dove l'80 per cento degli alunni è straniero e alta è l'incidenza di bambini con bisogni educativi speciali. Se aggiungiamo che in queste scuole gli insegnanti sono precari e tendono a spostarsi altrove, è facile capire perché il valore aggiunto dell'attività didattica è scarso o negativo. Succede che gli alunni di queste classi, di promozione in promozione, arrivino alla maturità con competenze al di sotto della quinta elementare: insufficienti per diventare cittadini consapevoli".

Il ministero ha scarso polso sul fenomeno e l'unico modo per raggiungere i giovani più in difficoltà è costruire patti o alleanze educative con la comunità territoriale, coinvolgendo gli educatori, le associazioni locali, la parrocchia e tutti coloro che sono in grado di aiutare a contrastare la disuguaglianza educativa e riportare i ragazzi all'interno delle scuole, fisicamente ma non solo. I risultati pubblicati da una ricerca condotta dal Forum Disuguaglianze e Diversità confermano che, nelle aree in cui la collaborazione fra società civile e scuola è stata più forte, la dispersione scolastica ai tempi del Covid-19 si è ridotta al dieci per cento, nelle altre è schizzata oltre il 40 per cento. La presenza degli educatori, nei periodi di lockdown e di chiusura delle scuole, ha permesso ai ragazzi più fragili di riallacciare il legame con la scuola e trovare maggiore fiducia in se stessi.

Proprio sulla riduzione dei divari e sul miglioramento delle competenze degli alunni il governo Draghi ha deciso di investire 1,5 miliardi del Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza. Tuttavia, il tragitto che porta a quell'obiettivo desta parecchi dubbi: "Quasi quattro miliardi serviranno a mettere in sicurezza le scuole, renderle agibili e costruirne 195 di nuove. Ed è giusto investire sulle infrastrutture, visto che l'età media delle scuole italiane supera i cinquant'anni", commenta Daniele Checchi, docente di Economia della Statale di Milano, che prosegue: "Mentre è meno chiaro come si intenda utilizzare gli altri 1,5 miliardi per ridurre la dispersione scolastica e i divari". L'unica certezza è l'intenzione del governo di investire 300 milioni di euro in un progetto di mentoring online per evitare che 10mila giovani abbandonino la scuola. Un progetto attorno a cui c'è molto scetticismo, visto che proprio la didattica a distanza è risultata fallimentare nella formazione dei giovani.

C'è inoltre un malcontento generalizzato da parte di insegnanti e associazioni locali per come si intende sostenere i patti e le alleanze educative che coinvolgono le comunità locali: "Nel Pnrr ci sarebbe la possibilità di avviare progetti di collaborazione fra istituti e terzo settore, che è l'unico in grado di recuperare i ragazzi in fuga dalla scuola. Ma serve una precisa governance del ministero per decidere come costruire e favorire queste alleanze, specialmente nelle aree più critiche e fragili, e dove il territorio non offre comunità locali di sostegno alla scuola. Al contrario, non sembra esserci questo interesse, ma un generico rimando al meccanismo dei bandi e dei Pon, che favorisce le scuole meglio attrezzate, a scapito di quelle più disagiate", spiega Ludovico Albert.

Non è una questione di risorse economiche, come fa notare Andrea Morniroli della cooperativa Dedalus che opera su Napoli e coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità: "Basterebbero 250 milioni di euro per finanziare cento progetti e altrettante scuole collocate nelle aree più fragili d'Italia. Piuttosto è una questione di riforme e di programmazione da parte del ministero", che al momento è pronto a usare il sistema dei bandi, un metodo consolidato ma fallimentare, per ridurre i divari, senza offrire una via preferenziale alle aree più critiche. Il rischio è di perdere per sempre metà dei giovani italiani, oggi in fuga dalla scuola, domani smarriti nella vita.