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di Irene Famà


La Stampa, 29 dicembre 2021

 

"Chi poteva salvarlo non l'ha fatto. Era alto un metro e 80 era arrivato a pesare 49 kg". Detenuto nel carcere di Torino, avrebbe dovuto scontare la pena in una comunità ma era scappato. "Era ancora vivo. Eppure così magro, così debole. Che stava male l'abbiamo detto a tutti. Ai magistrati, ai medici del carcere. Nessuno ci ha ascoltato. Loro avrebbero potuto aiutarlo, ma nessuno l'ha fatto".

È lo sfogo di dolore di due genitori, mamma Rosalia e papà Mario, che hanno visto il loro Antonio, un ragazzo alto un metro e 80, deperire, diventare fragile, arrivare a pesare 49 chili. E poi morire a 28 anni per un'infezione che quel corpo debole non è riuscito a sconfiggere.

L'hanno visto arrivare seduto su una sedia a rotelle nel "parlatorio" del carcere "Lorusso e Cutugno" di Torino. Chiedeva assistenza. "Non riesco più a mangiare", diceva. Ma intorno a lui credevano fosse un modo per ottenere benefici. Mamma Rosalia e papà Mario tutto questo l'hanno osservato da fuori le sbarre. E da lì hanno fatto quel che hanno potuto. Insieme ad altri. Come la garante dei detenuti, che la situazione di Antonio l'aveva segnalata alla direzione della casa circondariale, e a un educatore che per descrivere Antonio aveva usato queste parole: "Ha le stesse sembianze di Cucchi". Mamma Rosalia e papà Mario dicono una frase coraggiosa: "Abbiamo sempre creduto nella giustizia e vogliamo continuare a crederci". Parole che in questo contesto hanno più di un significato.

Antonio di guai ne aveva avuti diversi. Ad esempio un arresto per una rapina a una prostituta. Avrebbe dovuto scontare una pena in una comunità per tossicodipendenti, ma un mese prima della fine è andato via. Così è finito al penitenziario del quartiere Vallette con un'accusa in più: l'evasione. I genitori, rappresentati dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore, oggi non vogliono "discutere se Antonio dovesse o non dovesse stare in carcere". Il punto è un altro: "In carcere avrebbe dovuto essere aiutato e questo non è successo".

E Antonio di aiuto ne aveva bisogno. Si drogava da quando aveva 14 anni. Cocaina, cannabinoidi, benzodiazepine. Soffriva d'ansia, di depressione. Il carcere come luogo di riabilitazione, di crescita, di riscatto, così si sente dire spesso. Per lui non è stato così. Antonio, con la giustizia, aveva delle questioni da mettere a posto, questo è certo. Ma ne aveva altrettante da far quadrare con sé stesso. Per questo, sofferente, aveva bisogno d'aiuto. E quell'aiuto non l'ha trovato. Al contrario, anche in cella - là dove avrebbe dovuto essere tenuto lontano da tutto ciò che poteva fagli del male - ha continuato a drogarsi, lo dicono gli accertamenti di laboratorio.

È vero che non riusciva più a mangiare, ed è altrettanto vero che le terapie dei medici non le seguiva e al ricovero in ospedale si opponeva. Perché? Antonio era un ragazzo difficile, da accompagnare, assistere, accudire. È stato lasciato solo. Curato, come si legge nelle carte dell'inchiesta sulla sua morte, in "invalicabili note difficoltà imposte dall'ambiente carcerario".

Quattro persone sono state per omicidio e lesioni colpose. Il pm al termine delle indagini ha chiesto l'archiviazione perché "non ci sono elementi sufficienti ad ascrivere loro colpevoli omissioni idonee a cagionare o favorire il decesso". Mamma Rosalia e papà Mario la legge non l'hanno mai contestata, nemmeno quando a violarla è stato loro figlio: "Ora chiediamo giustizia anche per lui".