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di Luigi Ferrarella


Corriere della Sera, 2 dicembre 2021

 

Morti un 36enne condannato per estorsioni sportive, un 47enne per violenze in famiglia e un uomo di 36 anni che sarebbe tornato in libertà tra un anno. Nel penitenziario solo quattro poliziotti. Inagibili palestra, cappella e sale colloqui.

Tre suicidi in un mese, di cui due in una settimana: per quanto siano insondabili le scelte delle persone che arrivino a togliersi la vita, e quindi oscena la presunzione di trarne facili correlazioni, non ci vuole un genio a capire che le tre morti fra il 25 ottobre e il 30 novembre (più un tentato suicidio) sono la punta di un iceberg di problemi serissimi nel carcere di Pavia.

Tutti e tre in espiazione di una condanna definitiva (categoria di detenuti che a rigore dovrebbe stare più in una casa di reclusione che in una casa circondariale come Pavia), prima si è ucciso un italiano di 36 anni condannato per estorsioni in ambito sportivo, poi un italiano di 47 anni condannato per violenze familiari, e infine ora un romeno di 36 anni che sarebbe tornato in libertà tra poco più di un anno. Proprio il giorno prima di quest'ultimo suicidio una delegazione di "Antigone" era entrata nel penitenziario, e ora - spiega la responsabile lombarda Valeria Verdolini - chiederà di tornarvi domani proprio per la gravità della situazione verificata.

Pavia ha (come molti istituti) problemi di sovraffollamento, con 586 detenuti (che erano 609 in estate) in 518 teorici posti regolamentari, e più della metà sono stranieri. Ha più di 300 detenuti "protetti", che cioè per ragioni varie hanno collocazione diversa dall'ordinaria. Ha un polo psichiatrico in teoria per il bacino lombardo ma (al momento per 12 ospiti) con un personale ampiamente sottodimensionato. Ha, per quanto riguarda la direzione, un rosario di congedi e reggenze. Ha soltanto 4 ispettori nella polizia penitenziaria (corpo ovunque sotto organico) e 4 educatori a rappresentare le rispettive posizioni professionali per 600 detenuti. In affanno è la medicina penitenziaria, che ha visto un dottore arrivare a fare anche 36 ore di fila di turno perché "con le dimissioni in massa del personale sono rimasti solo due medici, di cui uno, psichiatra, appunto costretto a fare turni per coprire le guardie", riassume la professoressa di Esecuzione penale Laura Cesaris, Garante provinciale dei detenuti da settembre 2020.

E poi ci sono "le disastrose condizioni logistiche, il forte degrado dovuto a incuria e infiltrazioni d'acqua: con inagibili la palestra, la cappella e le sale colloqui, tra le soluzioni prospettate c'è anche quella di far diventare polifunzionale il teatro.

L'inagibilità di questi spazi", insieme ai problemi di riscaldamento e di acqua, "ha una ricaduta assai pesante sulle condizioni detentive, peraltro rese ancora più difficili dall'infestazione di alcuni parassiti. Condizioni di vita peggiorate nell'indifferenza" mentre la pandemia aggrava la separazione fra il dentro e il fuori, valuta Cesaris invocando maggiore consapevolezza non solo nell'amministrazione penitenziaria ma anche negli avvocati e nei magistrati di sorveglianza.

Altrimenti "la separazione prescritta a tutela anti Covid finisce per costituire un alibi per ignorare persino le esigenze più elementari". Talvolta anche per malintese rigidità burocratiche. Come nella risposta della direzione del carcere alla doglianza della Garante di non essere stata avvisata del secondo suicidio: "Pur nella reciproca collaborazione, la richiesta non trova fondamento nelle prerogative del Garante provinciale dei detenuti".