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di Pietro Chiaro*


Il Domani, 23 novembre 2021

 

Quando, dopo 30 anni di magistratura, sono andato in pensione, ho deciso di fare volontariato, chiedendo di poter accedere nel carcere locale di Rovereto, per dare consulenza ai detenuti. Ho avvertito l'esigenza di conoscere meglio quel mondo dei "rimossi della società" che avevo condannato sulla base delle carte processuali, senza alcuna possibilità di valutazione del loro percorso umano. E ho maturato la convinzione che tutti dovrebbero visitare un istituto penitenziario almeno una volta, per superare quel "niente" che caratterizza la loro conoscenza.

Si potrebbe allora capire che nella situazione carceraria vi è la costante di un'immanente "doglianza" legata all'incapacità dello stato di restituire al mondo persone riformate e recuperate, reintegrabili nella società. La limitazione della libertà personale andrebbe prevista solo negli estremi casi di acclarata sussistente e permanente pericolosità: nei 191 istituti penitenziari italiani, nelle celle di pochissimi metri quadri talvolta senza aria e con i servizi igienici pressoché attaccati alle brande, non vi è ragione di tenere reclusi i tossicodipendenti, gli extracomunitari e i poveri disgraziati che non hanno trovato adeguata difesa nel processo.

Cominciamo a riflettere sulla necessità di applicare la misura carceraria solo in casi estremi di acquisita e permanente pericolosità del condannato, ricorrendo più spesso alle misure alternative, già previste (affidamento in prova ai servizi sociali, arresti domiciliari, semilibertà, liberazione anticipata). Giustificare l'attuale sistema carcerario significa avallare il sistema della vendetta di stato e della sua violenza, attraverso le misure di sofferenza e dolore inflitte ai ristretti, senza alcun recupero sul piano del tasso di criminalità.

 

*Ex magistrato