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di Damiano Aliprandi


Il Dubbio, 2 ottobre 2021

 

"Fortunatamente, il Covid non ha prodotto i danni inizialmente temuti. Tuttavia, l'importante penetrazione del virus in alcuni Istituti e la quasi totale assenza in altri dimostra chiaramente la mancanza di linee organizzative minimamente omogenee nel sistema". Così evidenza Luciano Lucanìa, Presidente della Società italiana di medicina penitenziaria (Simspe), durante il Tavolo Tecnico Istituzionale e Interdisciplinare "Sanità Penitenziaria. Quale futuro?" di giovedì scorso, organizzato con il contributo non condizionato di Gilead Sciences in apertura del congresso Simspe a Roma.

Com'è noto, la Simspe si confronta da anni con un sistema quale quello penitenziario italiano estremamente complesso, in cui ogni anno transitano oltre 100mila persone, alle quali deve essere costituzionalmente garantito il diritto inalienabile alla salute. Questo obiettivo già di per sé non è semplice visto il contesto di riferimento; si è poi ulteriormente complicato da tredici anni a questa parte, a seguito del Dpcm 1/4/2008, che ha trasferito questa competenza al Servizio Sanitario Nazionale, generando un sistema disomogeneo, reso ancor più intricato dal riferimento a due dicasteri, Giustizia e Salute. Le difficoltà emerse in questi anni si sono palesate con estremo vigore durante la pandemia, che ha messo a nudo i limiti di questa organizzazione e hanno posto come sempre più urgente un intervento legislativo sul tema.

"Non è facile far coesistere nello stesso ambiente - ha proseguito Luciano Lucanìa durante il tavolo - con l'obiettivo di gestire le stesse persone, l'azione di due amministrazioni così profondamente differenti come quelle riconducibili ai ministeri di Giustizia e Salute. Troppo spesso si finisce per lasciare l'organizzazione dei 190 Istituti Penitenziari italiani alla buona volontà di chi vi opera. Il messaggio lanciato da Simspe riguarda la necessità di favorire il dialogo tra le due amministrazioni, possibilmente con una Legge quadro che tracci i contorni organizzativi della Sanità penitenziaria in modo omogeneo sia all'interno delle Regioni che in ogni singolo Istituto".

Ha evidenziato l'infettivologo e direttore scientifico della Simspe Sergio Babudieri: "Il carcere è un ambiente complesso su cui hanno competenza due dicasteri diversi, Giustizia e Salute, per tutelare un doppio. Queste amministrazioni non sono coordinate: la nostra richiesta è che inizino a collaborare e che vi siano presupposti normativi che consentano di affrontare in maniera dettagliata tutti gli aspetti organizzativi negli istituti penitenziari. La riforma del 2008 ha trasferito le competenze dal ministero della Giustizia a quello della Salute, quindi il controllo della sanità penitenziaria è passata dal Dap che governa tutti gli istituti penitenziari alle singole regioni: per garantire alle persone detenute una qualità dell'assistenza sanitaria pari ai liberi cittadini, il prezzo pagato è stato la perdita dell'unicità del sistema".

Quello che il professor Babudieri denuncia, è che nelle carceri italiane manca uniformità anche solo nei contratti del personale medico, infermieristico e tecnico. "Il sistema è altamente disomogeneo anche all'interno delle stesse regioni. Il Decreto aveva istituito degli osservatori regionali per la tutela della salute in carcere, ma solo poche regioni particolarmente virtuose come Emilia- Romagna, Toscana e Lombardia si sono organizzate; manca un approccio sistematico", ha concluso. Il contesto della sanità penitenziaria è estremamente difficoltoso. Il controverso equilibrio normativo che condiziona la sanità penitenziaria si inserisce in un quadro con risvolti sociali altrettanto complessi. "La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, la frammentazione, la mancanza di adeguate normative forti sono elementi che lasciano la sanità penitenziaria in un guado - ha spiegato ancora Lucanìa. La pandemia ne ha rilevato non solo l'intrinseca fragilità, ma anche le prospettive assolutamente incerte per il domani. Mancano figure professionali adeguate alla sanità carceraria, ma soprattutto una visione comune di cosa debba essere la medicina penitenziaria all'interno del sistema".

Secondo la Simspe è necessaria anzitutto una legge quadro, che dica alle regioni quali sono i requisiti minimi, i Lea, che vanno assicurati all'interno delle carceri. "Non è possibile che ogni regione eroghi servizi differenti: un livello minimo deve essere garantito e uniformato. Ogni azienda sanitaria è fatta da unità operative, che siano complesse, semplici o dipartimentali e sono modulate in base a quello che fanno; il carcere non può sfuggire a questa regola. Non è solo un problema legislativo, ma proprio di organizzazione", ha concluso Lucanìa.

 

Non solo Covid, i detenuti ad alto rischio per epatiti e Hiv

 

Non è solo il Covid 19 il problema delle malattie contagiose in carcere. Secondo le stime dalla Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria (Simpse), dei 105mila detenuti possono essere positivi all'HCV anche il 20% (circa 21mila), la metà dei quali possono essere viremici (10%), il 5% vengono studiati e il 4% trattati, con l'auspicio che quindi almeno 4 su 5 vengano avviati alla terapia antivirale.

Il carcere, si sa, è un luogo in cui si concentrano problematiche sociali e di salute, in special modo riguardo alle malattie infettive come Hcv e Hbv. Il monitoraggio nel corso degli anni della prevalenza dei virus a trasmissione ematica in questo ambito mostra un trend in netta riduzione, in gran parte dovuto alla disponibilità di farmaci antivirali molto efficaci. Ma il carcere rimane comunque ad alto rischio di infezioni virali. In Italia un detenuto su tre ha commesso reati contro il testo unico per la lotta agli stupefacenti ed è verosimile che abbia o abbia avuto in passato una storia di rischio per infezioni da virus trasmissibili per via ematica e sessuale. La popolazione carceraria differisce da quella generale in quanto costituita da individui che presentano spesso problemi di salute nonostante un'età media non elevata, e allo stesso tempo beneficiano di un accesso ridotto all'assistenza sanitaria prima della condanna.

Gran parte dei detenuti hanno una storia di comportamenti sessuali ad alto rischio, uso di droghe per iniezione e tatuaggi. Per questi motivi presentano frequentemente coinfezioni, come epatite B (HBV) e HIV. Considerata l'elevata prevalenza di infezioni e la potenziale adozione di comportamenti a rischio negli istituti di pena (scambio di siringhe, rapporti omosessuali), le carceri sono luoghi che favoriscono la trasmissione di virus per via ematica. In aggiunta, una volta tornati in libertà, i detenuti infetti possono contribuire alla diffusione dei virus nel resto della comunità. Per rispondere agli obiettivi dell'Oms in merito all'eradicazione dell'HCV entro il 2030, la Simpse ha messo in atto un piano di microeliminazione dell'infezione in ambito penitenziario approvato dall'Istituto Superiore di Sanità. Un'altra criticità in questo ambito era l'infezione da HIV ma, grazie alla disponibilità delle attuali terapie antiretrovirali, dal 2001 al 2018 la prevalenza dei detenuti positivi al virus è passata dall' 8,4% all' 1,8%.

La microeliminazione prevede di operare per singola sezione detentiva (50-60 soggetti) quindi su gruppi ristretti di detenuti, previa un'educazione sanitaria specifica su come si intende procedere e quale messaggio veicolare. Successivamente viene effettuato lo screening tramite i nuovi e più maneggevoli test salivari e vengono supportati in maniera attenta quanti risultano sieropositivi. In questo modo si monitora la prevalenza all'interno di una data sezione, si effettua la stadiazione clinica dei soggetti positivi, si avviano le terapie e si eradica il virus. Sezione dopo sezione si copre l'intero istituto e a quel punto sarà sufficiente effettuare un'attività di screening per i nuovi entrati per avere il controllo totale nel tempo. Su una popolazione studiata di 2.687 soggetti il 4,6% (122) ha rifiutato la fase di educazione e quindi il test rapido e il 7% (189) era disponibile al percorso ma è stato rilasciato prima, così sono stati effettuati un totale di 2.376 test (88,4%), per una risultante siero- prevalenza del 10,4% (248) e una sieropositività a HCV- Rna del 40,7% (101/248).