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di David Allegranti


La Nazione, 4 luglio 2021

 

Il filosofo del diritto Emilio Santoro: "In trent'anni non siamo stati in grado di ripulire l'amministrazione penitenziaria da questa cultura". Il carcere è un luogo endemicamente violento. La sua violenza è psicologica e fisica, come dimostrano - a chi ancora non crede o non vuol vedere - i filmati di Santa Maria Capua Vetere, che immortalano i pestaggi in carcere.

Pestaggi organizzati, a quanto pare, ma lasciamo pure parlare le indagini, che adesso proseguiranno dopo le 52 misure cautelari a carico di altrettanti agenti di polizia penitenziaria, perché si è garantisti sempre (anche se questo non significa essere fessi). Purtroppo la violenza e i reati commessi da chi dovrebbe invece preoccuparsi della salute delle persone private della libertà personale non sono una novità. Il reato che punisce le torture è relativamente recente, esiste dal 2017, dà la possibilità di denunciare quello che nelle carceri italiane esiste da 30 anni.

"Il video di Santa Maria Capua Vetere è impressionante perché ricorda - anche se non abbiamo i video ma le descrizioni puntuali fatte dai detenuti e dagli ex detenuti - Pianosa 1992", mi dice il filosofo del diritto Emilio Santoro.

"Trent'anni fa, con l'attivazione del 41 bis, dopo l'assassinio di Borsellino, nelle carceri d'Italia furono presi tutti i criminali appartenenti alla mafia più gente che disturbava e andava tolta dai piedi. Furono portarono a Pianosa e pestati. In seguito ci fu una sentenza famosa, la Labita; l'Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo perché incapace di fare le indagini. Le violenze furono accertate ma non fummo capaci di individuare i responsabili dei fatti e non ci fu alcun condannato. Anche in quel caso l'organizzazione fu di tutto lo staff del carcere".

Insomma il problema, osserva Santoro paragonando i racconti dei detenuti di Pianosa ai video di Santa Maria Capua Vetere (stessa modalità: detenuti che passano attraverso due ali di agenti e vengono manganellati) è che c'è "una metodologia che si tramanda da 30 anni. In trent'anni non siamo stati in grado di ripulire l'amministrazione penitenziaria da questa cultura che continua ad avere presa sugli agenti di polizia penitenziaria".

Ci sono inchieste per tortura in tutta Italia. Due anche in Toscana, a San Gimignano (condanna in primo grado per dieci agenti di polizia penitenziaria) e a Sollicciano (richiesta di rinvio al giudizio). E poi a Torino, a Ferrara. "La violenza in carcere c'è ma per fortuna oggi le procure la guardano", dice Santoro. A differenza di prima, le indagini arrivano fino in fondo e si scopre che c'è un mondo agghiacciante che non si ferma soltanto alla polizia penitenziaria. Sotto indagine ci sono anche i medici, accusati di aver dichiarato il falso. È così purtroppo che nasce un contesto favorevole alla violenza: nell'omertà delle istituzioni. Chi dirige il carcere invece avrebbe il dovere di minimizzare la violenza in un luogo ontologicamente violento.