di Aldo Torchiaro


Il Riformista, 29 maggio 2020

 

Luciano Violante ha servito il Paese in tre vesti: da magistrato ha indagato terrorismo e trame nere; da giurista ha insegnato Procedura penale; da politico è stato più volte eletto in Parlamento, diventando presidente della Camera. Una tripartizione che ha tenuto a mantenere distinta.

"Avrei voluto fare l'architetto, ma gli studi erano troppo lunghi per me, che avevo l'esigenza di rendermi subito indipendente dalla famiglia", ci racconta. Una famiglia antifascista unita dalle avversità: è nato nel campo di concentramento inglese di Dire Daua, dove padre e madre erano stati internati, mentre il fratello del padre andava a morire a Mauthausen.

È un enfant prodige, a 22 anni si laurea e fa il concorso da magistrato. Lo vince e viene mandato a Torino, "città dall'anima razionale, sobria, costituzionale, perché vede convivere il cattolicesimo salesiano del lavoro, la sinistra comunista della classe operaia e della borghesia intellettuale, l'area liberale".

Nel 1976 è impegnato su processi importanti, e l'allora segretario del Pci torinese, Iginio Ariemma, lo vuole candidare alla Camera. Lui ci pensa e sta per dirgli di no quando riceve la telefonata di Enrico Berlinguer, che non aveva mai conosciuto.

"Ho deciso di non candidarmi, faccio il magistrato", gli disse. E Berlinguer, sollevato: "Sono d'accordo. Politica e magistratura sono piani che non possono sovrapporsi, non si può investire sul terreno politico il consenso avuto sul terreno giudiziario".

L'offerta sarà ripresa in considerazione tre anni più tardi, quando lavorava al ministero della Giustizia. E sarà esiziale: "Non esistono porte girevoli: chi abbraccia la politica non può e non deve tornare ad amministrare la giustizia, io feci una scelta e non sono tornato più indietro".

 

Furono gli anni di piombo a cementare il rapporto tra la sinistra e la magistratura?

Sì. Perché c'era stata una saldatura necessaria tra il Pci, che era stato il partito più impegnato contro il terrorismo, e i tanti magistrati che rischiavano la vita ogni giorno. Si creò un fronte comune progressivamente ravvicinato, ideali comuni e nessun baratto.

 

Poi ci fu Mani Pulite, altro spartiacque. Da allora la fonte primaria per i giornalisti sono diventate le Procure, e qualcuno ci ha costruito una fortuna. I grandi quotidiani divennero Gazzette delle Procure...

I giornalisti ricevevano dagli uffici giudiziari sempre più informazioni di quelle che immaginavano di trovare. Si realizzò un'intesa tra le testate, una sorta di agenzia stampa collettiva. E da allora quel rapporto si è consolidato, anche perché facilita entrambi. Le carriere da separare rimangono quella tra giornalisti e pubblici ministeri.

 

Come nacque Mani Pulite?

Fu uno dei punti di passaggio verso un nuovo sistema politico. L'imprenditoria italiana decise di non pagare più, perché dopo la fine del regime sovietico non servivano più dighe anticomuniste da pagare. E in molti si precipitarono nelle Procure, chiedendo di essere ascoltati e affrettandosi a dire di essere stati concussi. Si aprì così la valanga di Tangentopoli, non solo per l'azione dei magistrati o per una qualche inchiesta giornalistica. Prima i processi nascevano dalle inchieste. Da quel momento avvenne il contrario. Tutt'oggi avviene il contrario.

 

Da allora i magistrati hanno fatto politica, direttamente e indirettamente.

La magistratura oggi è parte del sistema di governo del Paese, e non per suo arbitrio: per effetto dei poteri che le sono stati dati. Partiti e Parlamento hanno approvato leggi che regolano tutto, controllano tutto, sorvegliano tutti. Questa è stata una delega di governo alla magistratura: vuole che il magistrato meno responsabile non si comporti come un organo politico? Quel magistrato ha mutuato la lingua volgare e violenta della peggiore politica.

 

E non sono rari gli eccessi di qualche divo televisivo con la toga...

È necessario scongiurare un eccesso di potere: il magistrato non é organo di controllo generale della Repubblica.

 

Il Csm va riformato. Con quale formula?

Partirei dalla questione del vice presidente, eletto da 2/3 di magistrati e 1/3 di laici. Intorno a quali intese si determina l'elezione? È pensabile che sia il presidente della Repubblica a designare il suo vice, per sottrarlo a logiche pattizie? È una ipotesi, una mia idea. Certo, se si comincia a patteggiare dal primo giorno, con un accordo sul Vice presidente, non si finisce più. Si entra in una logica di trattativa. Sia chiaro: sono stati eletti anche eccellenti Vice Presidenti. Ma cambierei il metodo. Porterei gli anni di funzione da 4 a 6. E farei come per la Corte Costituzionale: non eleggere l'organo, ma i singoli componenti. A metà del primo periodo si sorteggiano la metà dei componenti che scadono subito e si procede alla elezione dei componenti che devono subentrare; e man mano che i singoli scadono si eleggono i nuovi membri, così è più difficile fare accordi spartitori. Ci sarebbe una continuità di prassi e la possibilità che ogni nuovo arrivato tra i membri laici sia aiutato nel capire i meccanismi, evitando il monopolio delle competenze che oggi è in mano alla componente giudiziaria.

 

Una proposta concreta. La politica la recepirebbe?

Per fare queste cose bisogna per prima cosa conoscere i problemi e non so se tutti li conoscono. E poi bisogna fare anche limitatissimi interventi sulla Carta Costituzionale, per cui bisogna essere d'accordo con ampia maggioranza.

 

Che idea si è fatto del caso Di Matteo-Dap? Chi avrebbe posto, secondo lei, il veto?

Non so se era un veto e non so se qualcuno è intervenuto. Il fatto che i boss non sarebbero stati contenti di Di Matteo al Dap era un fatto noto tanto al ministro quanto al dottor Di Matteo al momento della proposta. Dico invece che i due posti non erano equivalenti: il capo del Dap è un ruolo di prestigio, mentre alla direzione generale degli Affari penali non sei il numero uno. Quel ruolo è molto diverso oggi, dai tempi di Falcone. Penso che si siano fatte valutazioni interne. Non sono un fan del ministro Bonafede, ma non mi pare che qui abbia sbagliato.

 

Come avrebbe votato, se fosse stato in Giunta per le autorizzazioni su Salvini sul caso Open Arms?

Avrei letto con attenzione le carte.

 

In un discorso da presidente della Camera definì la libertà come "necessità di contrastare chi ha un eccesso di potere dominante". Vale anche per la magistratura di oggi?

Assolutamente sì.

 

Lei è stato anche presidente della Commissione parlamentare antimafia. Che idea si è fatto della testimonianza di Saverio Lodato sulle "menti raffinatissime" dietro all'attentato dell'Addaura?

Subito dopo l'attentato all'Addaura, nel giugno 1989 mi telefonò Gerardo Chiaromonte. Mi disse: c'è l'amico tuo (così chiamava Falcone) che ci vuole vedere. Ci vedemmo in un ristorante a Trastevere, "Romolo al giardino della Fornarina" a pranzo, io, Falcone e Chiaromonte. Giovanni era particolarmente teso. Si diceva molto preoccupato, non ricordo se usò l'espressione "menti raffinatissime". Parlò di una intelligenza di livello diverso e certamente superiore rispetto a quello delinquenziale e di una carica esplosiva molto forte. Non era un avvertimento ma un attentato cui scampò per puro caso.

 

Disse intelligenza o intelligence?

Intelligenza, in italiano.

 

Gli chiese se avesse in mente qualche sospetto?

Non fece alcun nome.

 

Gli intrecci e le trame che leggiamo nelle intercettazioni parlano di un sistema di favoritismi e di complicità tra politica, istituzioni, magistratura e informazione. Un fenomeno nuovo?

Non è un fenomeno del 2020. È qualcosa che esisteva ma che è andato degenerando. Non è un problema di correnti ma di capi corrente, come accade nei partiti. Sono duplicazioni di correnti politiche con le stesse logiche, ma con meno senso delle istituzioni: perché si trovano a gestire potere decisionale discrezionale persone prive di responsabilità per quelle scelte.

 

Si finisce per fare carriera solo per appartenenza correntizia?

L'appartenenza è molto importante ma non è l'unica strada. Si sono fatte anche ottime scelte anche in posti delicati come le Procure di Milano, Napoli, Roma, Torino. Questo sistema non ha fatto solo danni; è un sistema sbagliato e che va cambiato, ma ha anche prodotto risultati molto apprezzabili.

 

Cosa serve per rendere giusta la giustizia?

Bacchette magiche non ce ne sono. È un problema di lenta ripresa del senso di responsabilità all'interno e all'esterno della magistratura. Io credo che cambiare il Csm sia necessario. Poi c'è un punto di fondo: non si indaga per sapere se c'è una notizia di reato, ma perché c'è una notizia di reato. Lo Stato democratico dà il potere a un magistrato di indagare su una persona, sulla sua libertà, sui suoi beni, in base a presupposti certi. Il tema della notizia di reato è importante: mi muovo se c'è una precisa notizia di reato, non perché c'è un sospetto di notizia di reato. Come oggi avviene con la nuova legge sulla Corte dei Conti: quelle Procure possono muoversi solo quando c'è una precisa notizia.

 

E lì parte il processo mediatico, primo e talvolta ultimo grado di giudizio.

Il magistrato e il giornalista devono prestare più attenzione alla reputazione dei cittadini e delle istituzioni. Troppe volte risulta che i sospetti erano infondati, ma la reputazione è già stata distrutta. È un problema di civiltà.

 

Su questo Davigo obietterebbe.

Temo che non sia il solo punto sul quale non siamo d'accordo.

 

Esiste un allarme criminalità organizzata, oggi che la crisi morde?

Certamente, chi ha grande liquidità cerca di investirla. La mafia sta cercando di investire al Nord, presentandosi come soggetto sostenitore delle aziende in crisi. I soldi ci sono, a differenza del passato, bisogna accelerare al massimo. Tu Stato, inizia a darli, non partire con la logica della sorveglianza e del sospetto: uno Stato che non si fida dei suoi cittadini, suicida se stesso. Chi ha sbagliato pagherà, ma nel frattempo si evita che a pagare siano tutti gli altri.