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recensione di Francesco Petrelli*


Il Dubbio, 15 gennaio 2020

 

Quel vincolo che lega la natura del processo a libertà e democrazia. Il motivo per cui le comunità degli uomini abbiano voluto e continuino a volere il processo, nonostante l'atto del giudicare sia tanto "necessario" quanto "impossibile", è da cercare proprio nell'ostinato e azzardato tentativo di superare quello "stallo" creando quell'"imperfetto" ma ineliminabile strumento conoscitivo che è il processo penale. Glauco Giostra, nel suo saggio edito da Laterza, "Prima lezione sulla giustizia penale", ne illumina la fluttuante ingegneria, il suo essere un esile ponte gettato fra due sponde, fra la res judicanda e la res judicata.

Un percorso apparentemente lineare che, al contrario, svela sotto i passi di chi lo percorra la complessità di un organismo vivente con i suoi principi vitali e con le sue patologie. E sebbene si tratti di un organismo la cui struttura complessa non è altro che una macchina cognitiva volta alla ricostruzione dei fatti e delle responsabilità di un reato, tuttavia quella sua stessa funzione si intreccia, non solo con i limiti intrinseci delle nostre capacità conoscitive ("I limiti epistemologici alla ricerca della verità"), ma anche con tutti quei valori morali e quei principi etico- politici di cui è intessuta la nostra convivenza civile che ci impongono di rinunciare ad una prova se quella acquisizione dovesse comportare la violazione di tali principi e il tradimento di quei valori ("I limiti valoriali alla ricerca della verità").

Ed è proprio quest'ultimo aspetto a mettere in tensione il sistema ed a svelare come nel fondo il processo penale porti inevitabilmente con sé un intero bagaglio valoriale che da millenni ci fa interrogare sul fatto se la ricerca del reo e la repressione del crimine siano in ogni caso più importanti dei principi, se dunque la preda valga più delle regole della caccia e se, infine, violare quelle regole non significhi rinnegare proprio la nostra stessa natura di animali politici destinati a sottoporre noi stessi al limite della ragione.

Da quando la più antica furia vendicativa del ghenos si scontrava con i nuovi valori della polis, sino al più moderno scontro fra pulsioni securitarie ed equilibri costituzionali, fra diritto penale del nemico e difesa della dignità dell'individuo, un filo rosso sembra snodarsi nel tempo alla ricerca di quel limite razionale. È tuttavia anche vero che il processo penale, come spiega l'Autore, non può raggiungere i suoi scopi se la comunità in cui vive non ne condivide le regole ed i valori fondanti, se non accoglie come razionalmente adeguato il suo metodo di ricerca e di conoscenza e come convenzionalmente vero il suo risultato, così "riattivando il moto circolare che esprime la vitalità democratica e civile del Paese".

Quella profonda unità di senso che secondo Glauco Giostra si deve cogliere all'interno di una comunità nel riconoscimento delle regole del processo, dovrebbe tuttavia risultare tanto più necessaria proprio con riferimento alla legittimazione della figura del Giudice che in una moderna società democratica non può non trovare la sua radice più credibile in una riaffermata "terzietà".

Se oltre che essere "imparziale" - visto che, come riconosce l'Autore, appare assai improbabile che il testo costituzionale contenga una ridondante endiadi il Giudice dovrà essere anche "terzo", occorrerà riconoscere che quella effettiva "terzietà" non si potrà realizzare pienamente se non attraverso un netto rifiuto di ogni condivisione ordinamentale, disciplinare e di carriera del giudice e del pubblico ministero, la cui persistenza priva il processo penale di un suo essenziale punto di equilibrio.

Sarebbe, infatti da chiedersi se tutte quelle derive istituzionali, quelle prassi degenerative e quelle "torsioni" del sistema processuale, che affliggono oggi la giurisdizione penale, così acutamente e puntualmente individuate dall'Autore (dalla applicazione in chiave sostanziale delle nullità, alla interpretazione della norma che "esonda dagli argini dell'alveo semantico tracciato dalla legge" risolvendosi di fatto nel compimento di "scelte politiche") non abbiano una origine proprio in quella mancata riforma ordinamentale che avrebbe dovuto accompagnare ab origine l'introduzione del modello accusatorio nel nostro Paese, in quell'ormai lontano 1989.

Riflettere dunque sui fondamenti, anche quelli apparentemente più elementari, del sistema processuale è quanto mai importante e necessario in un momento in cui i presupposti liberali delle nostre stesse democrazie vengono messi in dubbio.

Non solo dalle nuove ideologie conservatrici e sovraniste, ma anche nel sentire comune, in quella cultura della disintermediazione che ha in odio il pensiero ed ha silenziosamente trasformato l'opinione pubblica in un "pubblico senza opinione" ed il cittadino in suddito plaudente, grato al suo nuovo sovrano del ruolo generosamente assegnatogli.

Ripensare allo statuto del processo penale ed alle sue regole epistemologiche come risultato di una lunga elaborazione democratica, oltre che filosofica e scientifica, significa infatti inevitabilmente ricondurre il discorso - come ricorda l'Autore - alla radice dei rapporti fra libertà del singolo e autorità dello Stato, ed a quel vincolo profondo che lega la natura del processo alla natura della democrazia, all'interno della quale esso è nato ed è cresciuto.

Trasmutando spesso, cercando forme nuove e nuovi modelli ed anche tramontando, ma per poi risorgere e riaffermarsi con i suoi valori inestinguibili, anche quando la presunzione dell'uomo ha creduto di poterne fare a meno, scioccamente pensando che il processo penale riguardi solo la repressione dei crimini e non le libertà di ciascuno di noi. Se dunque quella barca affonda non possiamo restare ad osservarla fra i flutti con indifferenza. Dimenticando in proposito il terribile ammonimento di Blaise Pascal: "vous êtes embarqué".

 

*Avvocato penalista, già segretario dell'Ucpi